la copertina de La Nuova Secondaria su cui è apparso questo articolo

La convivenza multiculturale

un problema reale, ma non insuperabile

Pubblicato su La Nuova Secondaria, n. 8, aprile 2023 (anno XL), pp. 195-210.

Il titolo racchiude la sintesi di quanto si intende dire in questo contributo1. Il suo oggetto è infatti la convivenza pacifica e il più possibile armoniosa in una società multiculturale, quale è quella in cui ci troviamo sempre più, in Italia ma in un po’ tutto il mondo, a vivere.

Che la convivenza multiculturale sia un problema, da un lato, è qualcosa che una certa impostazione, chiamiamola sinteticamente multiculturalista radicale (potremmo anche dire ipoidentitaria), tende a negare o almeno a sottovalutare fortemente. Per questo nel titolo si parla di “problema reale”.

Che però si tratti di un problema superabile, d’altro lato, è quanto viene, all’opposto, negato, sia pur con diverse sfumature, da quello che potremmo chiamare il fronte identitarista, o “iperidentitario”, che dispera della possibilità di far convivere pacificamente aggregazioni umane contrassegnate da culture sensibilmente diverse. Per questo l’aggiunto di “non insuperabile” introduce la tesi che sarà sostenuta, ossia che si tratti sì di un problema, ma di un problema superabile, che deve sollecitare un adeguato livello di attenzione critica, ma senza esagitati allarmismi.

1. Chiarimenti preliminari

È bene chiarire anzitutto che l’argomento è affrontato non da un punto di vista sociologico, o comunque delle scienze umane, bensì da un punto di vista filosofico, o meglio filosofico-teologico, e, in (piccola) parte, giuridico. Se non lo si tenesse in conto, o se si pensasse, positivisticamente, che l’unico sapere valido sia quello scientifico, non si capirebbe un punto cruciale del discorso, che è la distinzione tra natura (in senso metafisico) e condizione (storica) effettiva. È comprensibile che nell’attuale contesto culturale il termine natura (umana) susciti forti resistenze, che possono essere in parte giustificate, ma in parte anche no. Giustificate lo possono essere come reazione a un uso storicamente occorso di tale termine, ossia un uso dogmatico (se non, talora, tendenzialmente fondamentalistico), come se noi sapessimo tutto della natura umana (e della legge naturale). Va chiarito però che non è in questo senso che qui tale termine viene usato: affermare l’esistenza di qualcosa non è affermarne una totale e perfetta conoscibilità. Non è infatti detto che si debba accettare il presupposto cartesiano che per affermare qualcosa come esistente se ne debba avere un’idea “chiara e distinta”. Una volta chiarito questo punto, si potrebbe anche usare l’espressione “comune umanità” al posto di “natura umana”, ma resta che si tratta di sapere se ciò che accomuna tutti gli esseri umani sia qualcosa di dato o qualcosa di costruito, di scelto, di convenzionale, insomma qualcosa che potremmo anche non scegliere, se così ci garbasse. Ora, una volta che si ammetta la possibilità di un dato (una natura intesa in questo senso, non dogmatico, non razionalistico) si può ammettere una distinzione appunto tra tale dato (“naturale”) e la condizione effettiva; tale distinzione è ad esempio in qualche modo implicita nella distinzione tra “fisiologia” e “patologia”. Se infatti si ritenesse che fattuale equivale a “naturale”, o meglio a “necessario”, risulterebbe impossibile parlare di malattia, e distinguere da essa la salute. E, del resto, risulterebbe altrettanto impossibile parlare di diritti umani e di loro violazione: qualsiasi azione diventerebbe infatti “naturale” per il solo fatto di esistere, in quanto non misurabile con un criterio dato, “oggettivo”.

Nel caso dell’uomo la distinzione tra “natura” (umana) e condizione effettiva rimanda (anche) al concetto, filosofico, di libertà, libertà “di arbitrio”, ossia di scelta. In base alla quale può accadere che qualcosa di naturale sia nei fatti contraddetto: se l’uomo infatti è dotato di libertà di scelta, egli può anche non attuare ciò che in lui sarebbe naturale. E questo aggiunge un nuovo motivo per cui “naturale” non equivale a “necessario”.

Per chi è credente, la teologia cristiana aggiunge a ciò un’ulteriore tassello, col concetto di “peccato originale”, in base al quale qualcosa che sarebbe in noi naturale (come “volere sempre il bene”), è diventato non solo non automatico, ma addirittura difficoltoso, se non arduo.

Inoltre va chiarito che qui il termine “culture” è usato nel senso di visioni-del-mondo, ossia concezioni totalizzanti della realtà, totalizzanti perché relative al suo senso ultimo; in altri termini, “culture” è qui usato come sinonimo di quello che John Rawls intende per comprehensive doctrines2. E una visione-del-mondo, una cultura totalizzante, una comprehensive doctrine, si propone come interpretazione globale della realtà, come interpretazione appunto del suo senso ultimo, situandosi al livello di filosofia (o anche di teologia) e non a quello delle scienze.

Ora, tra diverse comprehensive doctrines che spiegano in diverso modo il senso ultimo della realtà esiste una incompatibilità teoretica di principio. Se ad esempio una comprehensive doctrine afferma che Dio esiste e un’altra no, tra le due esiste incompatibilità, nel senso che non possono essere ritenute entrambe vere: o è vera l’una o è vera l’altra. Lo stesso si dovrà dire di due comprehensive doctrines l’una delle quali affermi che Dio è trino, l’altra che Dio è una sola persona. Chi invece dicesse che tutte le diverse comprehensive doctrines sono egualmente vere, direbbe in realtà che esse sono tutte egualmente false, cioè che non è soddisfatta per nessuna di esse la pretesa, che pure esse hanno, di essere la vera interpretazione della realtà. In altre parole il relativismo della posizione che sarà chiamata in seguito come “ipoidentitaria”, per quanto si pretenda rispettoso di tutte le culture (le comprehensive doctrines), in realtà non le prende davvero sul serio, e le riduce alla propria cultura, quella relativista; la quale, a quel punto, diventa l’unica a essere vera. E anzi, in un certo senso, persino assoluta.

Questa tentazione di relativismo è ciò sta alla base del multiculturalismo radicale, perché è chiaro che se tra le comprehensive doctrines non esiste incompatibilità teorica, diventa automaticamente garantito che tra le aggregazioni umane che ad esse si ispirano (potremmo chiamarle comprehensive communities) non esista alcun problema di compatibilità pratica. In tal modo la convivenza multiculturale diventerebbe qualcosa di automaticamente garantito, in modo del tutto aproblematico.

La tesi che si vorrebbe invece proporre, come già accennato, è che, pur essendoci un problema, che si radica in quanto appena detto, ossia una incompatibilità teorica tra le diverse comprehensive doctrines, questo problema è superabile, ossia dalla incompatibilità teorica non scaturisce necessariamente una incompatibilità pratica, una impossibilità di convivenza pacifica e ordinata tra comprehensive communities. Anche se l’incompatibilità pratica rimane una possibilità, un rischio da non sottovalutare.

Vediamo anzitutto le due posizioni “estreme” tra le quali si colloca la soluzione qui proposta, che sarà esposta successivamente.

2. L’identitarismo o la non-superabilità del problema

Questa impostazione, l’identitarismo, che tende a pensare alla convivenza multiculturale in termini di problema insuperabile e quindi vagheggia una società il più possibile omogenea, ha come autori di riferimento, tra gli altri, Carl Schmitt (1888-1985) e Samuel Huntington (1927-2008), sui quali ci si soffermerà.

Prima di esaminare le differenze tra i due, vediamo anzitutto che cosa li accomuna, ovvero quali siano gli elementi essenziali di una impostazione iperidentitaria in quanto tale.

Innanzitutto vi è una percezione esasperata e unilaterale del valore della propria identità, sia in quanto individuo, sia in quanto realtà associata (gruppo, nazione); si tratta di una identità concepita come totalmente autosufficiente e perciò non-relazionale. Una tale identità, quindi, può essere solo minacciata, o almeno impoverita, dal rapporto con l’alterità. Da ciò segue, dato che con l’altro un qualche rapporto è comunque inevitabile, una estrema facilità a sentire minacciata tale identità, chiusa in sé stessa. Di qui, ulteriormente, la tendenza a pensare all’altro in termini di nemico, e a cercare costantemente di individuare chi, in un certo momento, sia il nemico, un nemico da sconfiggere e dominare (per Schmitt) o da respingere lontano (per Huntington).

2.1 Carl Schmitt

Alla base della percezione schmittiana dell’identità, come minacciata dall’alterità, sta l’idea, filosofica, che la realtà sia, se non irrazionale (in sé), almeno inintelligibile (per noi), non si presti cioè ad essere razionalmente compresa in una sua oggettiva logica e in una sua oggettiva sensatezza. Pur senza arrivare all’esplicito, ed estremo, irrazionalismo di Nietzsche, Schmitt propende infatti per un profondo pessimismo sulla possibilità che la ragione, che accomuna tutti gli esseri umani, possa riconoscere delle verità e dei valori universali e quindi condivisi. Lo conferma, tra gli altri, Michele Nicoletti: «nella situazione prospettata da Schmitt non vi sono universali a cui appellarsi»3. Non possiamo conoscere una struttura intelligibile esprimibile in leggi universali, ma solo una realtà fatta di eccezioni, cioè di particolari (indeducibili). Il che implica una sfiducia nella capacità conoscitiva della ragione e l’impossibilità, come osserva ancora Nicoletti, di «una conoscenza neutra, oggettiva, razionale»4.

In assenza quindi della possibilità, che solo la ragione potrebbe garantire, di condividere verità e valori, tra gli esseri umani non può che prevalere il conflitto, un conflitto la cui soluzione non può che dipendere dalla forza.

E, infatti, centrale in Schmitt è l’idea di amico/nemico: non possiamo considerarci “fratelli” e amici di tutti gli esseri umani: per lui è ipocrita e ingannevole parlare di “umanità”, come qualcosa di neutro che accomunerebbe tutti gli esseri umani. Riprendendo una frase di Proudhon, egli disse che «chi dice umanità, vuole imbrogliare»5. È decisivo quindi discernere chi, tra gli altri esseri umani, è amico e chi invece nemico. Con i nemici poi non si può trattare o dialogare, perché, come accennato, non esiste una comune capacità razionale di riconoscere verità o valori davvero universali, che tutti possano condividere. Il nemico pertanto deve essere semplicemente piegato e sconfitto. Se necessario, come è quasi sempre, con la violenza e la guerra.

Da notare che “nemico” assume spesso in Schmitt il senso di «estraneo alla stirpe», uno che inevitabilmente «pensa e intende diversamente, perché egli è fatto in un altro modo»6. Insomma tra l’identico e l’altro vi è un fossato insuperabile, che rende impossibile trovare qualcosa di comune. Inutile quindi pensare a qualcosa come una giustizia che stia al di sopra di individui e nazioni, che esiga il rispetto di tutti e che, riconosciuta da tutti, possa fondare una convivenza pacifica: non c’è nessuna giustizia universale e oggettiva, ma ognuno prende tutto quello che riesce a prendere, in base alla sua forza. «All’inizio – dice Schmitt, giocando sul doppio senso della parola tedesca Grund - non vi è una norma fondamentale [Grund-Norm], ma una occupazione del fondo [Grund-Nahme7, dove la «norma fondamentale» sarebbe una giustizia oggettiva, che appunto non esiste, mentre l’unica realtà è l’«occupazione» (la «presa», Nahme), cioè un impossessarsi brutale ed egoista di tutto il possibile.

Da tale inevitabilità dell’egoismo discende l’inevitabilità della guerra, che ha sempre e necessariamente un carattere egoistico, particolaristico: egli denuncia come ipocrita il concetto di guerra giusta, cioè fatta per motivi ideali, universalistici. In realtà si combatte sempre per affermare il proprio potere, il proprio interesse. Anche qui, ideali come la giustizia e l’umanità sono ipocrite astrazioni, funzionali a progetti tutt’altro che nobili: sono maschere ideologiche, che nascondono intenti egoistici. Ad esempio il concetto di umanità «è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico»8.

Se dunque l’egoismo particolaristico è inevitabile, tanto vale perseguirlo apertamente. Come faceva, onestamente (dal punto di vista di Schmitt), il nazismo, per il quale egli non a caso simpatizzò, e come invece pretendevano di non fare, ipocritamente (sempre dal suo punto di vista), gli Stati Uniti e i loro alleati, vincitori della Germania nella Seconda Guerra Mondiale.

Ora, in base a tali premesse, non può che scaturire un atteggiamento di sospetto e di rigetto non solo verso l’altro che vive al di là dei propri confini nazionali, ma, a maggior ragione, verso un altro che pretendesse di installarsi all’interno dei confini della patria, e che in qualche modo chiedesse diritti eguali a quelli degli autoctoni. Schmitt non fece in tempo a conoscere il fenomeno della immigrazione di massa nei paesi occidentali, ma ci possono essere pochi dubbi sulla posizione che avrebbe preso al riguardo. Come pochi possono essere i dubbi sul fatto che la sua impostazione è uno dei principali punti di riferimento teorici dell’identitarismo, che vede la presenza di realtà non assimilabili alla cultura tradizionale di un certo paese in termini di minaccia inaccettabile.

2.2 s Samuel Huntington

Se l’identitarismo schmittiano ha ancora tratti di aggressività espansionistica e dominatrice dell’alterità, quello di Huntington si presenta in una forma mitigata e con obbiettivi ben più modesti: l’identità rimane sì il valore da salvaguardare, ma ora non pretende più di dominare l’altro, ma si accontenta di respingerlo lontano. Il mondo che Huntington sogna è un mondo in cui le diverse (e reciprocamente incomunicanti) civiltà vivono l’una accanto all’altra, senza (o con il minimo di) interferenze reciproche.

Mentre quindi Schmitt poteva considerarsi in qualche modo ispiratore dell’identitarismo interventista dei teo-con, per dirla con Massimo Borghesi9, che celebrarono i loro fasti con George Bush senior e la prima Guerra del Golfo, Huntington potrebbe essere visto come ispiratore dei teo-populisti, con il loro identitarismo isolazionista, perseguito ad esempio da Trump, che non pretende di esportare democrazia e valori civili occidentali, ma si accontenta, e anche esige, di essere totalmente “padrone a casa propria” (ad esempio il più possibile senza immigrati e senza concorrenza economica straniera).

Anche in Huntington, come in Schmitt, esiste un presupposto gnoseologico antirealista: è impossibile alla ragione umana cogliere verità e valori davvero universali. Ogni civiltà ha i suoi valori, che sono incommensurabili a quelli delle altre civiltà. Huntington in effetti polemizza con l’ottimismo con cui Fukuyama aveva parlato10 di fine della storia e di trionfo in tutto il mondo di democrazia e diritti umani (intesi in senso occidentale); piuttosto, il tramonto dell’economicismo marxista avrebbe fatto emergere prepotentemente il peso decisivo della cultura, o meglio delle culture, intese come compartimenti stagni cristallizzati e irriformabili, refrattarie a ogni possibilità di dialogo.

È questa sfiducia nella universalità dei valori di democrazia e diritti umani ciò che rende pessimistica la visione di Huntington: per lui le civiltà non occidentali, come l’Islam e la Cina, una volta impadronitesi della scienza e della tecnica (sviluppate sì anzitutto dall’Occidente, ma effettivamente universali), cercheranno di distruggere l’egemonia planetaria (anche culturale e “costituzionale”) occidentale e di affermare i loro valori. A quel punto all’Occidente non resterà che rintanarsi in un cantuccio e affidarsi a dei palliativi, come quello di fomentare il più possibile rivalità tra i propri nemici11 (una sorta di divide senza impera).

Notiamo che, come in Schmitt, l’assenza di verità e di valori universali razionalmente conoscibili porta alla tesi della inevitabilità del conflitto, che in questo caso è conflitto tra civiltà. Per Huntington le civiltà non-occidentali non tanto “possono essere”, ma piuttosto “sono” - intrinsecamente e inevitabilmente - nemiche dell’Occidente, come del resto lo sono anche tra di loro. Per questo nel mondo può, e potrà sempre e solo, esistere una situazione di fragile tregua, ma mai una vera e stabile pace. L’importante, per rimandare il più possibile lo scatenarsi di conflitti, è che ogni civiltà chiuda gli occhi su ciò che accade nelle altre civiltà: nessuna violazione dei diritti umani o del diritto internazionale deve portare a intervenire “fuori casa”. Huntington fa l’esempio di una guerra di aggressione della Cina contro il Vietnam: l’Occidente non dovrebbe intervenire in alcun modo, perché si tratta di cose che riguardano un’altra civiltà (di cui, a suo dire, parteciperebbero tanto la Cina che il Vietnam). Questa «regola dell’astensione» («abstention rule») è per Huntington regola generale e fondamentale: è «la prima condizione essenziale [«requirement»] per il mantenimento della pace» in «un mondo multipolare»12.

3. Il multiculturalismo radicale o la sottovalutazione del problema

In totale opposizione all’identitarismo, il multiculturalismo radicale, o ideologico, nega o almeno minimizza, come si accennava, la stessa esistenza di un problema di convivenza tra diverse comprehensive communities (nel senso sopra precisato).

A dispetto di questa opposizione, tuttavia, il presupposto gnoseologico su cui esso si basa non è molto diverso da quello dell’identitarismo, ossia la sfiducia nella possibilità della ragione di cogliere verità e valori universali. A questa comune sfiducia, se Schmitt reagiva con un “allora ne approfitto per dominare gli altri”, e Huntington con un “allora mi devo rassegnare a stare nel mio orticello”, il multiculturalismo radicale o ideologico reagisce con un “allora dobbiamo tollerarci gli uni gli altri, convivendo senza alcuna contenuto valoriale condiviso”. Esso cioè scommette sul fatto che si possa convivere pacificamente e armonicamente anche senza aver alcun valore condiviso, se non quello di un’illimitata, e auspicabilmente reciproca, accoglienza.

Il relativismo del multiculturalismo è esplicito e sistematico, a differenza di quello, implicito e per così dire sofferto e contorto, dell’identitarismo. Quindi esso può dispiegare senza remore tutte le sue potenzialità. Un pensatore che esemplifica bene questa radice filosofica coerentemente relativistica del multiculturalismo radicale è Jacques Derrida (1930-2004). In lui la critica alla concezione realistica della conoscenza è spietata e categorica: la pretesa di cogliere delle verità valide per tutti, come fa la «filosofia della presenza» è inevitabilmente violenta. Se infatti presumo di conoscere in modo certo e preciso l’altro, presumo di avere su di lui un dominio conoscitivo, e questo fatalmente diventa pretesa di dominio anche pratico, e perciò violenza. Per evitare questa conseguenza allora, Derrida sostiene che altro è totalmente inafferrabile, e perciò si può solo parlare a lui, ma non di lui13. Qui sembra che Derrida, pur cogliendo un aspetto di verità, e cioè che dell’altro io non posso capire tutto, lo estremizzi indebitamente, come se dell’altro io non potessi capire niente, anzi come se non si potesse capire niente di alcunché. E questo appare eccessivo, perché la nostra conoscenza ha inevitabilmente a che fare con la realtà, e quindi conosce qualcosa. Imperfettamente, ma realmente.

In ogni caso, la conseguenza pratica di questo relativismo è la proposta di accoglienza incondizionata dell’altro; incondizionata perché, non essendoci verità o valori che si possano ragionevolmente affermare come universali, qualsiasi condizione si possa porre, sarebbe una condizione particolaristica, egoistica: andrebbe bene per me, farebbe comodo a me, ma non esprimerebbe un valore che l’altro possa riconoscere come valido anche per lui. All’altro allora, a qualsiasi altro, io posso solo dire «viens!», «vieni!». Senza condizioni. Questa, «vieni!», potrebbe in effetti essere la formula del multiculturalismo radicale a riguardo del tema immigrazione, come proposta di accoglienza, appunto, incondizionata.

Per giustificare tale totale assenza di cautele nell’accoglienza di culture diverse il multiculturalismo radicale immagina una facile, automatica integrazione tra diverse comunità comprehensive. E per fondare questa tesi esso insiste sulla fluidità e la contingenza delle identità culturali. È interessante al riguardo che nell’area multiculturalista non manca chi avversa a tal punto il concetto sociologico di identità, da prendersela nientemeno che con concetto metafisico di identità, e quindi con quelli che Aristotele chiamava i principi supremi dell’essere (identità, non-contraddizione e terzo escluso). È il caso ad esempio dell’antropologo italiano Francesco Remotti, che ne L’ossessione identitaria, ritiene che il principio metafisico di identità aristotelico sia responsabile dell’uso storicamente negativo del concetto culturale di identità come un dato fisso e chiuso a qualsiasi apporto esterno14.

Non si può negare che la critica al concetto di identità culturale come qualcosa di definitivamente cristallizzato abbia qualcosa di vero: occorre però distinguere quelle che si potrebbero chiamare soft cultures (come le identità nazionali, etniche o linguistiche) da quelle che invece si potrebbero chiamare hard cultures (come certe identità religiose). Il primo di tipo di identità è effettivamente contingente e fluido: l’identità nazionale ad esempio è il frutto di una complessa costellazione di contingenze storiche, che avrebbero potuto benissimo essere diverse, dando luogo a una (almeno parzialmente) diversa identità. Analogamente le identità linguistiche sono qualcosa che evolve incessantemente e conosce continui fenomeni di ibridazione. Ma diverso sembra essere il caso delle hard cultures, come lo sono in particolare le religioni “rivelate”: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Queste hanno sì conosciuto dei cambiamenti, ma il loro nucleo dogmatico è rimasto sostanzialmente inalterato nel corso della loro pur lunga storia, e con tale nucleo sono rimaste costanti anche alcune decisive impostazioni relative all’etica e alla politica. La ragione di tale minor fluidità è proprio nel fatto che tali religioni presentano sé stesse come rivelate dal Creatore della realtà, concepito come Essere personale infinitamente perfetto ed eterno. Il cui volere, meritevole di incondizionata, assoluta obbedienza, e da Lui stesso comunicato, è immutabile e merita di essere scrupolosamente custodito, senza che l’uomo possa alterarne alcunché. Questa maggior “solidità” delle culture monoteistiche appare come storicamente documentabile anche nel modo di considerare il rapporto tra sfera sacra e sfera profana, che si è mantenuto piuttosto stabile in Cristianesimo e Islam, con il primo più incline a una maggiore distinzione tra sfera sacra e sfera profana. Per quanto riguarda il Cristianesimo infatti una distinzione tra le due sfere, sacra e profana, è rinvenibile in affermazioni che i Vangeli attribuiscono allo stesso Gesù Cristo, ad esempio nella celebre frase che distingue ciò che è dovuto a Cesare da ciò che è dovuto a Dio15, o nella Sua risposta a Ponzio Pilato, secondo cui Egli si dice sì Re, ma di un regno che non è «di questo mondo»16. Senza contare che il Fondatore del Cristianesimo ha dimostrato con la Sua vita (e la Sua morte in croce) di non essere interessato a “occupare” il potere. E il rispetto per una qualche autonomia della ragione può essere visto come implicito già nel primo capitolo della lettera ai Romani, dove si afferma che l’esistenza di Dio è dimostrabile razionalmente17 e non è quindi demandata a una fede cieca, che rinnegherebbe la ragione. Questo, certo, non significa che i cristiani abbiano tutti e sempre vissuto fino in fondo coerentemente con questi presupposti, ma è un dato storico che almeno la Chiesa cattolica ha conosciuto una dialettica tra potere politico e potere religioso18 sconosciuta ad altre religioni, che tali presupposti non avevano. È vero, poi, che sarebbe stato necessario aspettare il Concilio Vaticano II per una formale accettazione di una compiuta autonomia della sfera profana, col pieno riconoscimento ad esempio della libertà religiosa (nella Dignitatis Humanae); ma si tratta di qualcosa di già implicito come principio in un Annuncio, come quello cristiano, che ha come fattore essenziale quello di proporsi alla libertà di scelta delle persone19, e che infatti, storicamente, solo grazie alla libera adesione delle persone ha potuto diffondersi, avendo contro di sé lo Stato (romano).

Nell’Islam, per come si è storicamente sviluppato, la distinzione tra le due sfere appare più problematica, ad esempio con la fusione dei due poteri, religioso e politico, nelle mani di un’unica figura, il califfo20. Inoltre il fatto di concepire il testo sacro come dettato, e non semplicemente ispirato dal Creatore della realtà, ne rende problematica una possibile interpretazione ad opera della ragione, che si trova così in una situazione di minor valorizzazione rispetto alla concezione cristiana. Questa minor valorizzazione di una ragione autonoma è confermata dal fatto che è storicamente prevalsa nel mondo islamico l’idea che non si dia una legge naturale razionalmente conoscibile, da cui segue che, come tuttora viene teorizzato in molti paesi a maggioranza islamica, l’assetto civile deve in tutto e per tutto sottomettersi alla lettera del (testo) sacro come unica fonte del diritto. Ora, la persistenza storica di un tale nucleo21 identitario, almeno in alcune hard cultures, confligge con la tesi di una totale fluidità di qualsiasi identità culturale.

Del resto l’idea di una totale fluidità e contingenza delle culture si abbina all’idea che l’essere umano sia essenzialmente, se non esclusivamente, materia e dunque il suo modo di pensare e di agire, come pensava Marx col concetto di sovrastruttura, sia non solo condizionato, ma propriamente determinato da fattori economico-materiali, mentre i fattori ideali e culturali in questa prospettiva sono considerati irrilevanti e totalmente derivati. E anche questa è una tesi filosofica che appare meritevole di revisione: la realtà del pensiero, infatti, quel pensiero che spazia oltre il qui ed ora immediati, come pure l’infinità del desiderio, mai saziabile da alcun bene materiale, suggeriscono la presenza in noi di un fattore superiore alla materia. Ora, se c’è in noi un fattore meta-materiale è assolutamente verosimile che anche la nostra progettualità e il nostro agire possano essere frutto non solo di esigenze materiali, ma anche di esigenze meta-materiali, superiori, ideali. E quindi non è detto che certe condizioni materiali siano la causa esauriente di certi comportamenti, e che basti cambiare tali condizioni per risolvere, ad esempio, il problema della presenza di atteggiamenti fondamentalistici. Basta del resto vedere come comunità di immigrati di diversa comprehensive doctrine, posti nella medesime condizioni materiali, poniamo di povertà ed emarginazione, reagiscano in modo ben diverso: gli uni in modo violento, gli altri no. Non risulta ad esempio che appartenenti al buddismo, o all’ebraismo, o al taoismo, o al cattolicesimo, o a molte altre comprehensive doctrines, per quanto economicamente disagiata fosse la loro condizione, abbiano compiuto (in nome della loro fede) atti di terrorismo o di violenza anche solo lontanamente paragonabili a quelli messi in atto da altre comunità comprehensive. E appare difficile non vedere in questo un sintomo del fatto che le idee hanno una loro forza. Questo non toglie che sia molto importante anche il fattore economico, come non toglie che vada fatto ogni sforzo per assicurare a tutti un livello umanamente accettabile di benessere e di sicurezza materiale. Occorre però chiedersi se tale livello esaurisca tutta la questione. E se quindi non esista un problema di compatibilità costituzionale del modo di affrontare il rapporto tra sacro e profano, storicamente prevalso in una certa comprehensive doctrine, dal momento che tale modo ha una sua consistenza ideale non (interamente) risolvibile a livello economico-materiale. Il che va nella direzione di confermare l’esistenza di un problema nella convivenza multiculturale, un problema che non va sottovalutato.

Se dunque l’identitarismo aveva il grave limite di immaginare un’inimicizia insuperabile tra gli esseri umani, il multiculturalismo radicale cade nell’errore specularmente opposto, di supporre una amicizia un po’ troppo a buon mercato, chiudendo gli occhi sui possibili ostacoli che una convivenza tra diverse impostazioni totalizzanti può implicare.

Si è accennato finora a motivi teorici contro l’idea che la convivenza multiculturale sia totalmente aproblematica, vediamo ora qualcosa sui problemi pratici che possono nascere da tale sottovalutazione del problema. Si può infatti arrivare a mettere a repentaglio valori di incomparabile e vitale importanza per la convivenza civile, come quello quello della sicurezza. Si pensi alla possibilità del terrorismo di matrice cultural-religiosa, che nel nuovo millennio ha interessato, com’è tristemente noto, diversi paesi occidentali; ma esistono anche ad altre forme, meno eclatanti, di minaccia alla sicurezza, come l’impossibilità di entrare in certe aree di territorio nazionale, abitate da immigrati e divenute de facto delle enclaves extraterritoriali, a rischio per le stesse forze dell’ordine. Per non parlare degli episodi di singoli autoctoni (europei) uccisi per aver manifestato delle opinioni ritenute offensive da parte di certe comunità, come accadde con Pym Fortuyn (6 maggio 2002) e Theo Van Gogh (2 novembre 2004) nei Paesi Bassi e come fu pure per il professor Samuel Paty, decapitato in Francia (il 16 ottobre 2020) per aver mostrato, nella classe di liceo in cui insegnava, delle vignette sul Profeta (ritenute, anche qui, offensive). E non mancano molte altre difficoltà nella convivenza tra diverse culture, che, se sarebbe sbagliato enfatizzare e strumentalizzare a fini elettoralistici, sarebbe non meno sbagliato ignorare o sottovalutare.

Ma oltre a tali fenomeni, più indiscutibili perché tali, nella loro terrificante efferatezza, da occupare prepotentemente la scena, almeno per qualche tempo, sui mezzi di informazione, ci sono possibilità meno eclatanti, bradisismiche si potrebbe dire, ma non per questo meno inquietanti. Non si può in effetti dare per scontato che certe comunità comprehensive non possano operare, una volta superata una certa soglia di consistenza demografica, nel senso di un (magari non necessariamente esplicito, o brusco) sovvertimento della democrazia, a favore di un assetto costituzionale teocratico. Non andrebbero ad esempio ignorate le, del resto esplicite, dichiarazioni di intenti fatte in tal senso da certi esponenti non certo marginali di certe comprehensive doctrines. Il fatto che ci sia almeno una di esse che ha storicamente dato vita in modo sistematico a dei sistemi teocratici, unito al fatto che in nessuno dei paesi in cui tale comprehensive doctrine è maggioritaria esista una democrazia minimamente credibile, qualche dubbio anche al più infervorato multiculturalista lo dovrebbe far venire sulla non-problematicità di una accoglienza incondizionata.

Un altro problema, che il multiculturalismo radicale tende a minimizzare, è poi quello della violazione dei diritti umani all’interno delle comprehensive communities. È il caso ad esempio di figlie che vengono minacciate e in certi casi anche uccise, per essersi troppo occidentalizzate, nel modo di vestire o di agire, o per la scelta di un partner non appartenente alla comunità in cui sono nate. O può essere il caso della poligamia (che sarebbe più corretto chiamare poliginia22): se è vero che sono documentati casi in cui tale istituto non è sgradito ad alcune delle stesse donne direttamente interessate (perché permette, ad esempio, alle mogli più anziane di essere sollevate da certe incombenze domestiche), ci sono molti altri casi in cui le donne sono costrette a subirlo come qualcosa di non voluto e di umiliante.

Qui si pone un decisivo problema filosofico, che rimanda in fondo alla già accennata questione della possibilità che la ragione colga delle verità universalmente valide: i diritti umani, come noi in Occidente li intendiamo, sono realmente, almeno nel loro nucleo (a prescindere cioè dalla loro applicazione effettiva che li può veder piegati a fini egoistici), valori universali? Ovvero sono solo i nostri valori, per cui “ogni cultura ha i suoi valori”, senza che sia possibile cogliere un nucleo di valori comuni, universalmente validi (come tende a pensare il relativismo che sta alla base del multiculturalismo radicale)? Se è vera la prima alternativa, come pensa il realismo filosofico, allora trova giustificazione una non tolleranza della violazione di tali diritti, per quanto motivata dalla cultura prevalente in certe comprehensive communities. È quello che pensano diversi studiosi, ad esempio Marcello Ostinelli, che richiama a difendere i diritti dei più deboli, donne e bambini, all’interno delle famiglie23. Analogamente Ferdinando Adornato mette in guardia da un «meticciato costituzionale»: implicitamente egli suggerisce quindi di distinguere un “buon meticciato”, come accoglienza dell’altro in quanto persona appartenente a un’altra etnia, da un “cattivo meticciato”, che accolga non tanto l’altro, ma quelle idee dell’altro che confliggono, e gravemente, con i diritti umani, costituzionalmente sanciti24. Su una linea simile anche Francesco Botturi che, in Universale, plurale, comune. Percorsi di filosofia sociale, parla dell’«impossibilità politica di una convivenza tra qualsivoglia componente culturale: fondamentalismo, anarchismo, terrorismo, settarismo occulto, ecc. E qualunque soggetto individuale o collettivo che si opponga alla dignità superiore della persona umana, all’uguaglianza di diritto degli uomini, alle libertà fondamentali, al primato della legge, si esclude perché in contraddizione con il criterio fondamentale della convivenza politica»25. Così anche Gerardo e Rico Ruiz sostengono come limite alla tolleranza multiculturale il rispetto, costituzionalmente sancito, della dignità della persona, specialmente quella dei più deboli: «la tolleranza della multiculturalità non può convertirsi in un pretesto con cui giustificare comportamenti» contrari «alla dignità della persona (specialmente la donna o i bambini [la infancia]». Sono proprio i più deboli che necessitano «una protezione statale che assicuri loro uno sviluppo personale non subordinato a modelli culturali o religiosi di carattere sessista o suprematista [hegemónico26.

Se è così, questo significa, ancora una volta, che un problema (di convivenza) esiste. Perché far accettare qualcosa che una certa comunità non è abituata ad accettare, non può non costituire un problema.

Una certa problematicità della convivenza multiculturale del resto viene riconosciuta anche da pensatori del calibro di Habermas e Böckenförde, che non sarebbe certo possibile etichettare come conservatori (e men che meno come populisti). Tali pensatori riconoscono non solo che la convivenza multiculturale può comportare problemi, ma che gli stati democratici hanno il diritto di difendere i valori su cui si fondano, e di farlo anche con misure energicamente coercitive.

Per Habermas in effetti l’eterogeneità delle culture conviventi in una società deve avere dei limiti, non deve portare a una frammentazione della società in compartimenti stagni, dato che occorre «una cultura politica condivisa», un comune riconoscimento di principi costituzionali fondamentali: «la coesistenza a pari diritti di forme di vita diverse (...) esige l’integrazione dei cittadini dello Stato – e il reciproco riconoscimento delle loro aggregazioni subculturali – nel quadro di una cultura politica condivisa. I membri della società civile vengono autorizzati a sviluppare le loro specificità culturali solo a condizione che tutti – al di là delle barriere subculturali – si concepiscano come cittadini della stessa comunità politica»27.

E Böckenförde, che pure, da raffinato costituzionalista, aveva sempre optato per il massimo di tutele verso chi viene in Occidente, ha modificato la sua posizione alla luce di una idea di possibili rischi per la democrazia ed è così giunto a teorizzare che si possano adottare provvedimenti restrittivi non solo per chi opera, ma anche solo per chi progetta di operare in modo pericolosamente anticostituzionale. Egli è giunto a sostenere che

«lo Stato secolarizzato non può né deve consentire ad alcuna convinzione religiosa, indipendentemente dal sostegno che essa può trovare, di ammettere la possibilità di aprire e quindi smontare l’ordine costruito sull’apertura [cioè l’ordine democratico], dietro la pretesa della libertà di religione e dello sfruttamento delle possibilità democratiche. Ne deriva che, qualora una religione, attualmente l’Islam, dovesse assumere alla lunga un atteggiamento di resistenza attiva nei confronti della libertà di religione, e cercasse di abbatterla non appena si presentasse l’opportunità politica di farlo, attraverso la formazione di una maggioranza, lo Stato dovrebbe fare in modo che questa religione, nella fattispecie i suoi sostenitori rimanessero in minoranza, col che la riserva della diaspora mantiene il proprio significato. Ciò potrebbe, eventualmente, rendere necessarie delle corrispondenti misure politiche a livello di apertura, di immigrazione e di naturalizzazione»28.

Queste prese di posizione non sono nemmeno lontanamente accostabili alla pretesa di omogeneità totale avanzata da teorici come Carl Schmitt, ma evidenziano che gli autori citati riconoscono che la convivenza multiculturale non è priva di problematicità. Una problematicità, tuttavia, non insuperabile.

4. Una possibile sintesi: la non-automatica superabilità del problema

Come si è già più volte accennato, l’impostazione che sembra rispondere di più alla realtà è che esiste sì (a differenza di quanto vuole il multiculturalismo radicale) un problema, ma esso non è (a dispetto di quanto vorrebbe l’impostazione iperidentitaria) insolubile.

4.1 Aspetti pre-istituzionali

Che la soluzione sia possibile poggia anzitutto su una tesi filosofica, ossia che tutti gli esseri umani sono parte della stessa umanità, ovvero sono “fatti”, nella loro struttura profonda, allo stesso modo. In termini un po’ più precisi, e tradizionali, ciò significa ammettere che esista una natura umana, la stessa in ogni essere umano. In altri termini ancora, significa che apparteniamo tutti alla stessa famiglia umana.

Fino a qualche tempo fa, quando era ancora vivo lo sgomento per l’Olocausto, capitava abbastanza spesso di sentir parlare di fratellanza universale. Da diverso tempo, invece, un po’ anche per reazione agli eccessi di un malinteso egualitarismo, ideologico e aprioristicamente livellatore, hanno acquistato forza altre parole, che sottolineano, con l’irriducibilità delle differenze tra culture, piuttosto la diseguaglianza che l’eguaglianza tra gli esseri umani. A tal punto che in non poche persone l’idea di una comunanza essenziale tra tutti gli esseri umani tende a impallidire e a perdere consistenza.

Tuttavia esistono buoni argomenti razionali a favore di una comune appartenenza a una stessa famiglia umana. Ad esempio il fenomeno di una originaria, spontanea simpatia per gli altri esseri umani, che implica il desiderare il bene per tutti e il dispiacersi per il male e la sofferenza che affliggono gli altri. Tale, almeno, è la propensione naturale, quella che si ritrova nel bambino, e che poi viene più o meno (e più o meno stabilmente) deformata dal verificarsi di episodi e vicende in cui subiamo incomprensioni, torti o ostilità da parte di altri, con l’effetto di indurci a non essere più così benevoli verso (tutti) gli altri come sarebbe spontaneo, naturale, esserlo. Ma si tratta di una deformazione di qualcosa di originario, che inevitabilmente riemerge, se appena uno è attento ai primi moti della sua spontaneità: fare del bene agli altri ci fa sentire senza dubbio meglio che fare del male.

Non per nulla la regula aurea, «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te», è presente in (quasi) tutte le proposte etiche fiorite in ogni parte del mondo e nelle più diverse epoche29: e l’universalità di tale principio etico dimostra un suo profondo radicamento nella realtà umana, in una comune realtà umana. Anche se il bisogno di esplicitarlo è, certo, segno del fatto che la condizione effettiva dell’umanità si discosta spesso da tale, profonda, verità del nostro essere.

Del resto l’eliminazione del concetto di comune umanità come un dato (ossia come “natura umana”), come quello di legge naturale, non potrebbe non comportare gravi danni. Senza di esso infatti possono prendere corpo i peggiori incubi di violenza, di barbarie e di teorizzata iniquità: se non siamo tutti parte di una medesima umanità, per cui il male fatto a uno è male fatto a tutti, allora nulla, se non una opportunistica convenienza o un superficiale conformismo, può impedire di fare tutto il male che si vuole a chi si vuole. Ed è intuitivo come ciò possa portare a conseguenze disgregatrici per la convivenza e per la vita di ognuno.

Resta tuttavia il fatto che si tratta di un’idea contestata. Lo è anzitutto, come si accennava poco sopra, nell’area ultraconservatrice, iperidentitaria, dato che essa fa a pugni con l’idea di amico/nemico, essenziale al pensiero iperidentitario; ma essa non è assente nemmeno nell’area diametralmente opposta, ipoidentitaria, ultraprogressista. La ragione di ciò è il fatto che, storicamente, dall’idea di natura umana, e da quella, ad essa collegata, di legge naturale, sarebbero derivati comportamenti intolleranti, che hanno assolutizzato quello che era relativo e contingente. Si può certamente concedere che comportamenti del genere ci siano effettivamente stati, ma si tratta di vedere se ciò sia avvenuto a causa dell’idea stessa di natura umana, o piuttosto a causa di una certa interpretazione di essa.

È curioso osservare, in sintesi, che per la destra (radicale) l’idea di natura umana, cioè di una comune umanità come dato, costringerebbe a essere troppo tolleranti e “accoglienti”, mentre per la sinistra (radicale) essa costringerebbe invece a essere troppo intolleranti e non abbastanza “accoglienti”. E già da questo si può facilmente pensare come tali, simmetriche e opposte, valutazioni si elidano a vicenda. In effetti, se ben compreso, il concetto di natura umana, e di legge naturale, consente una giusta sintesi tra “rigore” e “comprensività”. Esso implica infatti sì, da un lato, “comprensività” e apertura all’altro, perché noi non sappiamo automaticamente e fino in fondo che cosa siamo (ovvero che cosa sia la “natura umana”), ma implica anche, d’altro lato, un giusto “rigore”, perché comunque sappiamo qualcosa di questo dato che una secolare tradizione chiama “natura umana” (ma che nulla vieterebbe di chiamare in altro modo, purché si faccia salvo che esiste il dato di una comunanza tra gli esseri umani); sappiamo cioè quanto basta per porre alcuni paletti in qualche modo “assoluti”, ossia, in pratica, quelli che vengono chiamati “diritti umani”, il nucleo essenziale dei quali gode di un larghissimo consenso (si pensi alla regula aurea).

È vero che qualcuno potrebbe sostenere, con Moore, Hume e in genere con chi nega la metafisica (cioè la capacità della ragione di cogliere verità universali e oggettive), la non-necessità di un presupposto ontologico all’etica (e quindi anche al rispetto dei diritti umani). Se tale opzione non pregiudicasse una reale convergenza sull’idea che si possa dare un bene comune, e sul fare come se fossimo un’unica famiglia, non vedo quali obiezioni si potrebbero opporre a tale esigenza. Tuttavia se uno già ritiene che sia bene agire come se fossimo un’unica famiglia, fatico a capire che obiezioni possa avere sul fatto che siamo un’unica famiglia. E fatico anche a immaginare che agire come se lo fossimo sia più stabilizzante che agire pensando che lo siamo per davvero. Perché a quel punto tutto poggerebbe su uno sforzo, poco o tanto volontaristico, che personalmente troverei poco motivato.

Se quindi come esseri umani apparteniamo alla stessa umanità, il bene fatto a uno è un bene fatto a tutti e il male fatto a uno è un male fatto a tutti. Questa è la verità profonda della nostra umanità. Ma è, certamente, una verità profonda che è continuamente contraddetta e intaccata dalla superficie del nostro comportamento effettivo, che vede componenti più o meno consistenti di egoismo particolaristico, tali da generare un assetto di, più o meno esteso, bellum omnium contra omnes.

Come dunque se ne esce? Come non rassegnarsi alla realtà del conflitto, di un conflitto egoistico, particolaristico, che spesso sembra imporsi come l’unica legge? Come far emergere la verità profonda della nostra natura umana, che dovrebbe dar luogo a un ideale non particolaristico (che mette gli uni contro gli altri), ma universalistico (di bene comune)?

Innanzitutto occorre che quello che è un dato oggettivo sia riconosciuto. Vi è anzitutto, cioè, un problema di conoscenza, di riconoscimento del dato. Nel nostro caso si tratta del dato di una comune umanità e quindi della possibilità di perseguire un bene comune. Come qualsiasi altra verità “affettivamente rilevante” (perché potenzialmente scomoda, come lo sono quelle di tipo filosofico e non di tipo scientifico) che la nostra mente è chiamata a conoscere, anche questa non è qualcosa di automaticamente riconosciuto, di facile e di immediato accesso. Noi tendiamo infatti a resistere al riconoscimento di ciò che ci scomoda, chiedendoci di cambiare qualcosa a cui immediatamente teniamo e a cui crediamo di non poter rinunciare. Ora, nel caso del riconoscimento di una comune appartenenza all’umanità a creare resistenza possono essere diversi motivi, non teoretici, ma pratici, come il fatto che ciò ci costringerebbe ad agire in un modo tutt’altro che immediatamente gradevole. Volere il bene dell’altro, infatti, quando ciò sembra confliggere col mio interesse, è tutt’altro che facile e automatico. Ne può facilmente seguire una sfiducia (più o meno reciproca), il sospetto che l’altro nutra, e magari non possa che nutrire, sentimenti e progetti ostili, particolaristici.

Per questo occorre un dialogo che sia alimentato da, e alimenti, una fiducia reciproca, e per questo non è sufficiente il confronto di argomenti logici, per quanto corretti e ineccepibili, ma occorre il più possibile un incontro che coinvolga le umanità dei dialoganti. Questo sembra un punto non sufficientemente sottolineato nella proposta di Habermas, che pure ha avuto il grande merito di tematizzare il concetto di dialogo tra tutti i soggetti umani (individuali e collettivi), superando in tal modo non solo l’idea schmittiana di amico/nemico ma anche quella marxista di lotta di classe. Per Marx infatti è impossibile un dialogo tra sfruttatori e sfruttati: l’unica via di uscita dalla conflittualità sociale è una lotta, che porti non a un accordo con la borghesia, ma alla vittoria, al limite cruenta, del proletariato su di essa. Habermas invece, che pure non ha mai rinnegato una netta sensibilità sociale e una attenzione ai più deboli e bisognosi, rifiuta l’idea marxista di una inevitabilità del conflitto e punta tutto sulla possibilità che gli esseri umani, a qualsiasi classe appartengano, possono confrontarsi dialogicamente, portando ragioni e ascoltando le ragioni dell’altro, così da realizzare il più possibile una intesa30.

Tuttavia il dialogo come lo pensa Habermas rischia di poter essere inteso in modo esclusivamente logico-discorsivo, il che trascura il fatto che gli esseri umani, che pure hanno nel logos una della loro più importanti risorse, non possono essere adeguatamente convinti da una pura logica, scorporata da una integralità di coinvolgimento esistenziale, in cui l’affettività e l’operatività siano pienamente dispiegate. Come osserva anche Paolo Musso «a dialogare non sono le culture, ma gli uomini in carne ed ossa»31, quindi per intendersi davvero non basta una pura logica, una pura argomentazione razionale.

In questo senso va considerata quella che si potrebbe chiamare conoscenza preconcettuale, che deve affiancare e integrare quella concettuale. Non vi è qui lo spazio per esporre in modo organico questo concetto, basti perciò dire che si tratta di qualcosa di analogo a quanto già tematizzato tra gli altri da Pascal, con l’esprit de finesse, o da Bergson, quando affiancava all’intelligenza logica l’intuitività, ma anche da Tommaso d’Aquino, in cui era presente il concetto di conoscenza per connaturalità, come ha ben sottolineato Maritain32. Si tratta cioè di una vera e propria modalità di conoscenza mentale, non meno di come lo sia quella concettuale-argomentativa, e in cui l’affettività e l’integralità dell’esperienza concreta giocano un ruolo importante. Importante, si intende, non per creare, ma per riconoscere le verità che riguardano l’ambito del senso ultimo e dell’agire, ad esempio i problemi filosofici (questo almeno, dal punto di vista gnoseologico realista). Il preconcettuale è infatti sostanzialmente irrilevante per quanto riguarda l’ambito scientifico in senso stretto, dove l’affettività, e una intersoggettività affettivamente connotata, non hanno una rilevanza decisiva: non l’hanno, almeno, nella misura in cui una certa verità scientifica non interferisce con l’ambito esistenziale, che, in quanto tale, non può mai lasciarci emotivamente indifferenti. Nell’ambito invece di ciò che concerne il senso ultimo della realtà e in quello delle scelte pratiche, individuali (l’etica) e collettive (la politica), non si ha una totale autosufficienza del concettuale, perché non si ha una fredda e distaccata presa d’atto di una oggettività che ci possa lasciare indifferenti. Le verità che riguardano il senso ultimo e le connesse verità etico-politiche sono infatti verità che coinvolgono fortemente la nostra sfera affettivo-emotiva.

In un dialogo autentico, integralmente umano, non è perciò pensabile di superare le divergenze, che possono essere di ostacolo a una convivenza armoniosa tra diverse comprehensive communities in una società multiculturale, puntando solo su dimostrazioni razionali e argomenti logici, per quanto ben condotti. Occorre che tra i soggetti dialoganti si istituisca un clima di fiducia, che permetta un reale incontro tra le umanità dei dialoganti. E questa fiducia può essere non essere un atto ciecamente volontaristico, ma qualcosa di ragionevole, quando almeno uno di essi cominci a rischiare la propria verità umana, mostrando di non perseguire un obbiettivo particolaristico, che lo metterebbe contro gli altri, ma di puntare e di tenere al bene comune, a ciò che unisce.

Ora, questo non è qualcosa che si possa ottenere grazie a provvedimenti legislativi o comunque come frutto di una coercizione operata dalle istituzioni. È qui che si recupera quello che mi sembra il cuore del famoso Diktum di Böckenförde: l’istituzionale ha bisogno del pre-istituzionale, e si tratta di qualcosa che l’istituzionale non può ottenere facendo leva sul suo potere. Non si possono infatti costringere le persone ad essere eticamente buone, al massimo si possono sanzionare dei comportamenti esterni, oggettivamente verificabili, che danneggino altri: è tesi comunemente ammessa in ambito giuridico, dove è essenziale la distinzione tra intenzione (interiore) e atti “esterni” (in questo senso oggettivamente verificabili). Ma qui è richiesto qualcosa di più di questo. È infatti solo la libertà (di scelta33) dei soggetti umani, delle persone, quella che può produrre quel clima di fiducia reciproca, di tensione universalistica, di superamento convinto e cordiale di quei particolarismi che mettono gli uni contro gli altri, un clima quindi tale da consentire di superare i problemi che una convivenza multiculturale può porre. Ed è sempre qui che si recupera anche uno dei possibili sensi della frase di Eliot, secondo cui non possiamo immaginare «sistemi talmente perfetti» da poterci risparmiare la fatica di usare la nostra libertà, la fatica di “essere buoni”34. La fiducia reciproca, come anche la solidarietà, non si ottengono insomma grazie all’applicazione di regole, di “istruzioni per l’uso”, di una tecnica. Occorre invece il libero coinvolgimento dell’intero umano, dell’integralità dei soggetti chiamati a dialogare. In questo senso il bisogno che lo Stato, l’istituzionale, ha della società, del preistituzionale, è anche il motivo per cui è importante la sussidiarietà, cioè l’insostituibile apporto della società, delle persone nella loro indeducibile e non istituzionalmente programmabile libertà. Una libertà che non si preoccupi solo di argomentare, ma anche di coinvolgersi esistenzialmente, operativamente; osserva infatti ancora Paolo Musso che «per capirsi davvero, più ancora di ciò che si dice, è importante ciò che si fa: diventa quindi essenziale non solo avanzare proposte teoriche basate sui propri valori, ma anche costruire opere che di tali valori (e della loro rilevanza per il bene comune) costituiscano un’esemplificazione pratica»35. L’importanza decisiva di rapporti umani autentici è sottolineata ad esempio anche da Wael Farouq, che al Meeting di Rimini del 2021, parlando del disastroso ritiro dall’Afghanistan, spiegò come fossero stati proprio quelli a mancare nei vent’anni di presenza americana. Quest’ultima si era infatti limitata a istruire militarmente gli afgani, senza cercare «di imbastire dei rapporti umani a tutto campo con la gente»36: si erano insomma limitati all’istituzionale, senza rischiare di coinvolgere tutta la loro umanità (il preistituzionale).

Affinché questo approccio preistituzionale possa produrre buoni frutti è poi decisivo che nessun essere umano sia considerato in base a ciò che di involontario vi è in lui, come lo sono l’appartenenza a una certa etnia, o alla particolare cultura in cui si è trovato, non per sua scelta, a nascere e a crescere: ogni persona va considerata in quanto persona, unica e irripetibile, e in quanto tale capace di scelte libere e personali non deducibili a priori dal fatto di appartenere a una certa categoria; perciò essa non va etichettata in base a categorie generali, che sono schemi preconfezionati, cioè in fondo pregiudizi.

È questo un tema su cui insiste in modo particolarmente efficace Amartya Sen. Egli sostiene in particolare che una persona non può essere definita da una sola identità (collettiva, a cui “appartiene”), perché in ogni persona ci sono diverse identità e quindi diverse appartenenze

«la stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista (...). Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di esse può essere considerata l'unica identità o l'unica categoria di appartenenza della persona»37.

Quindi ognuno va guardato nella sua unicità irripetibile, senza essere etichettato preventivamente, come se, data una sua appartenenza a una certa identità, uno non potesse che essere ed agire in un certo, prevedibile e standardizzato, modo.

4.2. Aspetti istituzionali

Certo, questa dimensione preistituzionale, per quanto importante e necessaria, oltre al fatto di darsi sempre e solo in misura (più o meno) imperfetta, non è da sola sufficiente ad assicurare una convivenza multiculturale armoniosa: deve essere integrata dalla dimensione istituzionale. Tra le due dimensioni non va vista alternativa, ma reciproco completamento.

Ciò che in ambito istituzionale può concorrere a garantire una convivenza accettabilmente armoniosa di diverse comunità “totalizzanti”, comprehensive, sono, all’interno degli Stati, le Costituzioni e le Corti costituzionali e, a livello di rapporti tra Stati, gli organismi internazionali.

Com’è noto, una Costituzione è l’insieme di regole che uno Stato si dà e che i “partecipanti al gioco” democratico accettano, in modo che la “partita” politica non sia uno scontro distruttivo, che porti alla guerra civile, ma si mantenga a livello di una concors discordia. E, come in ogni gioco, anche qui occorre che ci siano sia delle regole condivise, sia chi le faccia rispettare e possa stabilire chi ha ragione in caso di contenzioso. Nel caso degli Stati le regole del gioco sono le Costituzioni e l’istanza suprema di arbitraggio sono le Corti costituzionali. In particolare, e fuor di metafora, le Corti sono state create in Europa dopo le tragiche esperienze dei totalitarismi che hanno portato alla Seconda Guerra mondiale. I totalitarismi infatti, in particolare in Germania, hanno potuto diventare realtà in modo formalmente ineccepibile: fu il Parlamento tedesco, legittimamente eletto, a votare a maggioranza di cedere pieni poteri al governo presieduto da Hitler. Quindi nella Germania del 1933 la democrazia non è stata assassinata, ma si è suicidata: essa infatti può democraticamente decidere, tramite un voto del Parlamento, di cedere il passo a una dittatura. Ora, le Corti costituzionali hanno il potere di impedire uno sviluppo del genere, il potere di bloccare delle decisioni che i parlamenti possono adottare e che porterebbero a compromettere l’esistenza della democrazia stessa.

Nel caso della convivenza multiculturale uno dei rischi, enfatizzato in modo strumentale dall’impostazione iperidentitaria, ma minimizzato in modo non meno sbagliato dal multiculturalismo radicale, è che una comunità totalizzante animata da un progetto fondamentalistico possa prendere, democraticamente, il potere e distruggere poi, in modo formalmente democratico, la democrazia. Instaurando ad esempio una teocrazia, intollerante e lesiva dei diritti umani.

Per evitare questa deriva antidemocratica è allora importante che sia, in qualche modo obbligatoriamente, riconosciuto un nucleo di “principi costituzionali fondamentali”, in cui ci sia una adeguata componente di sostantività. Nel linguaggio giuridico “sostantività” si contrappone a “proceduralismo” e indica quella che potremmo chiamare la “densità valoriale” di ciò che deve essere considerato non-negoziabile per partecipare alla vita politica di un paese. Sostantività cioè indica un assetto giuridico-costituzionale in cui non ci si limita a chiedere il rispetto di procedure, di regole formali, come fa il proceduralismo, ma si esige il rispetto anche di alcuni contenuti valoriali (ad esempio la libertà di parola). Parlando poi di adeguata sostantività si intende che essa non debba estendersi oltre un certo limite, come invece tende a volere il fondamentalismo. Per quest’ultimo tutti devono osservare, e fin nel dettaglio, delle regole che in realtà sono proprie di una certa comprehensive doctrine. Un esempio di sostantività ipertrofica, eccessivamente “ramificata”, sarebbe quello promosso da una comprehensive doctrine religiosa, che, incline al fondamentalismo, pretendesse di far coincidere l’ambito del reato con quello del peccato.

Non è difficile capire come l’atteggiamento fondamentalista che può animare una certa soggettività culturale, con la sua pretesa di “occupare” lo Stato, sia di grave ostacolo alla convivenza tra diverse visioni del mondo, dato che esso pretende che tutti si sottomettano alla propria: se una parte pretende di essere il tutto, si mette contro le altre parti.

È vero che anche la democrazia impone qualcosa come non-negoziabile: i principi costituzionali fondamentali; ma si tratta appunto di un nucleo sostantivo ristretto, e non esteso e dettagliato come quello che una visione fondamentalistica pretenderebbe di imporre. Si tratta inoltre di un nucleo, che proprio per sua “ristrettezza” (ultimamente riconducibile alla regula aurea), può vedere la convergenza concorde di tutte le “parti” che guardino alla convivenza in modo ragionevole e dialogico (accettando cioè che ci siano altre “parti”). E senza tale nucleo, affidandosi cioè a un impianto puramente proceduralista, la sopravvivenza della democrazia sarebbe più a rischio.

Occorre quindi perseguire una sostantività ragionevole tra i due opposti estremi di una sostantività ipertrofica, che chiede troppo, che estende troppo i contenuti costituzionalmente irrinunciabili, non-negoziabili, da un lato, e di un puro proceduralismo, d’altro lato, tale da non chiedere il rispetto di alcun contenuto valoriale, ma solo il rispetto di regole. Osserviamo che la prima posizione è tipica del pensiero “iperidentitario”, con suo dogmatismo tendenzialmente intollerante, mentre la seconda si abbina in genere al pensiero “ipoidentitario”, tendenzialmente relativista. Occorre quindi che il nucleo valoriale sia tale da poter vedere una convergenza delle diverse comunità totalizzanti, che rinunciando a imporre a tutti qualcosa di particolare, concordino su ciò che è ragionevolmente individuabile come indiscutibilmente umano e necessario alla convivenza. E questo nucleo esiste oggettivamente, se esiste come un dato oggettivo una reale comunanza tra gli esseri umani (una comune “natura umana”) ed esiste perciò un bene comune che la ragione umana, presente in tutti gli esseri umani, può riconoscere. In pratica questo nucleo sostantivo si riconduce ultimamente alla regula aurea, è espresso in forma esplicita ad esempio nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo solennemente promulgata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948; ed è del resto anche ciò a cui comunemente si allude col concetto di “diritti umani”. Quest’ultimo concetto, è vero, non è inteso in modo univoco da tutti: vi è chi accusa l’Occidente di voler, eurocentricamente, imporre a tutta l’umanità ciò che sarebbe proprio della sola cultura occidentale. Non vi è qui lo spazio per una estesa trattazione di questa obiezione, mi limito ad accennare che anche questo punto rimanda alla questione gnoseologica, che sta alla base di tutto il discorso qui svolto, se cioè la ragione umana possa o meno conoscere la realtà. Una volta che si ammetta il realismo gnoseologico, non apparirà come eccessiva la pretesa di cogliere dei diritti umani realmente universali, e non solo “occidentali”. Anche se rimarrebbe la possibile, giusta, accusa di incompletezza di come essi sono stati intesi, ad esempio nella citata Dichiarazione del 1948. Questa in effetti si sofferma sui valori relativi all’individuo, e trascura quelli, più cari alle culture asiatiche, relativi alle relazioni intersoggettive e comunitarie.

Il loro nucleo irrinunciabile e non-negoziabile di principi costituzionali fondamentali, oltre che dalle Costituzioni, grazie all’apporto delle Corti costituzionali, può ricevere un aiuto istituzionale, che ne favorisca l’esistenza, anche dalla comunità internazionale dei paesi democratici, soprattutto tramite gli organismi internazionali.

È da un lato fin troppo evidente che certi organismi internazionali, come le Nazioni Unite, hanno una efficacia pratica molto limitata nel prevenire conflitti e, a maggior ragione, nel tutelare democrazia e diritti umani nei singoli Stati. La ragione di ciò è la grande (ed equivoca) eterogeneità costituzionale degli Stati che compongono tale organismo: fanno parte delle Nazioni Unite anche paesi decisamente non-democratici. E questo non può che essere un enorme ostacolo all’adozione di provvedimenti coerenti a tutela dei principi costituzionali fondamentali. Il recente caso della mancata condanna dell’invasione russa dell’Ucraina da parte dell’ONU, benché si tratti di una palese, inequivocabile e gravissima violazione del diritto internazionale, la dice lunga al riguardo. D’altro lato, tuttavia, nel caso di organismi internazionali più coerenti nella condivisione dei principi democratico-costituzionali, forme di pressione, essenzialmente economica, su paesi che non rispettano democrazia e diritti umani, possono avere un senso.

Certo, esistono al riguardo, anche in Occidente, dubbi sulla legittimità di una “ingerenza umanitaria” della comunità internazionale negli “affari interni” di un paese che violi in modo grave i principi costituzionali fondamentali. Si pensa infatti che non si abbia il diritto di insegnare ad altri la democrazia e i diritti umani, se non li si vive in modo perfettamente coerente. Ora, è vero che nessun paese al mondo è davvero totalmente democratico e totalmente rispettoso dei diritti umani, ed è anche vero che è di fatto inevitabile che gli interventi di “ingerenza umanitaria”, anche di paesi democratici, vedano una mescolanza di motivazioni ideali universalistiche e di interessi pratici egoistici e meschini. Ma c’è comunque una bella differenza tra l’essere incoerenti al 10%, e l’esserlo al 90%, come lo sono per lo più i paesi retti da dittature.

La questione, che è qui in gioco, è quella della possibilità stessa di democrazia e ideali universalistici, ed è legata a quella della oggettività dei principi costituzionali fondamentali, che a sua volta rimanda alla più generale e più volte accennata questione filosofica della verità: la ragione umana, cioè, può cogliere delle verità universalmente valide? Perché solo così si può pensare che il comportamento umano, quello degli individui e quindi anche quello delle nazioni, non sia murato in insuperabili egoismi particolaristici, ma possa mirare al bene comune, a ideali universalistici. Questi ultimi possano certo essere, e quasi sempre sono, mescolati a interessi particolaristici, ma senza esserne necessariamente e totalmente sopraffatti.

5. Conclusione

In ogni caso gli aiuti di tipo istituzionale volti a garantire una convivenza multiculturale rispettosa di quanto è davvero non-negoziabile, sono meno decisivi della componente preistituzionale. Anche per questo quella di come una convivenza multiculturale possa non essere la tomba della democrazia e dei diritti umani è una sfida, il cui esito non è garantito in partenza. Tale sfida non è infatti né inesorabilmente votata al fallimento, come vorrebbe il pensiero iperidentitario, né inevitabilmente destinata al successo, come si illude il pensiero ipoidentitario: è una sfida aperta, per il cui esito sarà decisivo l’uso che della loro libertà faranno gli esseri umani.

Francesco Bertoldi

Università dell’Insubria - Varese

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Schmitt C., Staat, Bewegung, Volk, Hamburg 1933, tr.it. Stato, movimento, popolo, in Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, Vicenza 2005.

Schmitt C., Nehmen / Teilen / Weiden, in «Gemeinschaft und Politik», 3 (1953), pp. 18-27, tr. it. Appropriazione, divisione e, produzione. Un tentativo di fissare correttamente i fondamenti di ogni ordinamento economico-sociale, a partire dal "Nomos", in Le categorie del “politico”, il Mulino, Bologna 1972, pp. 295-312.

Sen A., Identity and Violence. The Illusion of Destiny, W.W. Norton & Company, London - New York, 2006, tr.it. Identità e violenza, Laterza, Bari-Roma 2006 (edizione digitale).

1 Il contributo rappresenta una sintesi di quanto l’autore ha elaborato per la tesi di dottorato, di prossima pubblicazione.

2 Ad esempio in J. Rawls, The Idea of Public Reason Revisited, in «The University of Chicago Law Review», 3 (1997), p. 766.

3 M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990, p. 264.

4 Ibidem.

5 «Wer Menschheit sagt, will betrügen», C. Schmitt, Der Begriff des Politischen, Dunker & Humblot, München, 1932, tr.it. Il concetto di politico in Le categorie del “politico”, il Mulino, Bologna 1972, p. 139.

6 C. Schmitt, Staat, Bewegung, Volk, Hamburg 1933, tr.it. Stato, movimento, popolo, in Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 127.

7 C. Schmitt, Nehmen / Teilen / Weiden, in «Gemeinschaft und Politik», 3 (1953), pp. 18-27, tr. it. Appropriazione, divisione e, produzione. Un tentativo di fissare correttamente i fondamenti di ogni ordinamento economico-sociale, a partire dal "Nomos", in Le categorie del “politico”, cit., p. 97.

8 C. Schmitt, Il concetto di politico, cit., p. 139.

9 Cfr. M. Borghesi, Francesco - La Chiesa tra ideologia teocon e “ospedale da campo”, Jaca Book, Milano 2021, in particolare il cap. 1 (“La caduta del comunismo e l’egemonia dell’americanismo cattolico”).

10 Cfr. F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, Free Press, New York 1992.

11 S. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996, tr.it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1996, p. 302.

12 Ivi, p. 472.

13 J. Derrida, L'écriture et la différence, Du Seuil, Paris 1967, p. 152.

14 F. Remotti, L'ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 64.

15 Mt 22,21, Mc 12,17, Lc 20, 25.

16 Gv 18,36.

17 Rm 1, 19-20.

18 Già nei primi secoli si poteva assistere a esempi di tale dialettica, con un vescovo (Ambrogio) che rimproverava apertamente un Imperatore (Teodosio).

19 Il “primo” Agostino, riscoperto tra gli altri da Ratzinger, affermava appunto che nessuno deve essere costretto a credere (cfr. M. Borghesi, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell'era costantiniana, Marietti, Genova, 2014, p. 17).

20 Solo dopo la prima Guerra Mondiale tale figura (che da un certo punto in poi è stata rappresentata dal Sultano) ha cessato di esistere. Peraltro non senza recriminazioni e nostalgie (si pensi alla vicenda dell’ISIS).

21 Parlando di “nucleo” si intende riconoscere che molti dettagli (del rapporto tra dogma e ambito profano) sono stati soggetti evoluzione storica.

22 Esiste infatti anche un’altra variante della poligamia che è la poliandria.

23 Per lui è «prioritario [...] difendere i valori politici della cittadinanza democratica rispetto alle differenze culturali»; esistono infatti dei contenuti sostantivi realmente universali che devono avere il primato sulle particolarità culturali delle diverse comprehensive communities; e ciò soprattutto «quando si tratta della condizione di persone più deboli in quegli ambiti nei quali la discriminazione può essere facilmente esercitata e la garanzia dei diritti individuali risulta più difficile» (M. Ostinelli, L’educazione civica democratica di fronte alla sfida del multiculturalismo, in C. Galli (ed.), Multiculturalismo. Ideologie e sfide, il Mulino, Bologna, 2006, p. 122).

24 F. Adornato, L’Europa cristiano-liberale, in S. Zamagni, A. Guarnieri (eds.), Laicità e relativismo nella società post-secolare, il Mulino Bologna 2009, p. 205.

25 F. Botturi, Universale, plurale, comune. Percorsi di filosofia sociale, Vita e pensiero, Milano 2018, p. 184 (corsivo mio).

26 G. e R. Ruiz, Los derechos y principios constitucionales como límite y garantía de la identidad cultural, in V. Baldini (ed.), Multiculturalismo, CEDAM, Padova 2012, p. 132.

27 J. Habermas, Zwischen Naturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt am M. 2005, tr.it. Tra scienza e fede, Laterza, Bari 2006 , cap. 6, § 38 (i corsivi sono miei).

28 E.W. Böckenförde, Lo Stato secolarizzato, la sua giustificazione e i suoi problemi nel XXI secolo, in Lo Stato secolarizzato nell’età post-secolare, il Mulino, Bologna, pp. 51-52.

29 È il tema trattato dalla Commissione Teologica Internazionale, in Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2008, cap. 1.

30 Il tema è trattato in molte opere di Habermas, ad esempio nel L’inclusione dell’altro.

31 P. Musso, Epistemologia moderna e bene comune: dal relativismo culturale alla democrazia sussidiaria, in «Metabasis», X, 19 (2015), p. 164.

32 Soprattutto nei Quatre essais sur l'esprit dans sa condition charnelle, Alsatia, Paris 1956.

33 Quella che nella Scolastica era chiamata anche libertas minor, o libero arbitrio.

34 «They constantly try to escape / from the darkness outside and within / by dreaming of systems so perfect / that no one will need to be good» (T.S. Eliot, Choruses from “The Rock”, Faber & Faber, London 1934, VI, vv. 21-23).

35 P. Musso, Epistemologia moderna e bene comune: dal relativismo culturale alla democrazia sussidiaria, cit., p. 164.

36 Come scrivevo nella mia tesi di dottorato.

37 A. Sen, Identity and Violence. The Illusion of Destiny, W.W. Norton & Company, London - New York, 2006, tr.it. Identità e violenza, Laterza, Bari-Roma 2006 (edizione digitale), Prologo.